Il Giappone, in fondo, è anche un paese molto stressante, i ritmi di vita e di lavoro non concedono molta tregua, e quando si scopre che esiste la concezione dell'Inferno anche nel paese del Sol Levante è inevitabile cominciare a chiedersi se Dante, in fondo, non era un profondo ottimista.
Ed è proprio così. L'inferno giapponese, chiamato Jigoku, è un posto orribile. Deriva dal concetto buddista (Naraka) e da quello cinese (Diyu).
Coloro che muoiono e non sono degni di essere reincarnati in uno dei cinque reami superiori del buddismo subiscono la sorte peggiore. Finiscono nel Jigoku. Ma, come nei videogame, hanno comunque tre (e a volte sei) tentativi per redimersi e uscirne.
Ci sono 16 inferni principali, 8 caldi (il Jigoku vero e proprio) e 8 freddi. Ognuno di questi si divide in reami e sottoreami fino a contarne oltre 64.000. La permanenza in questi luoghi dannati si misura in trilioni (1.000.000.000.000.000.000) di anni, ma si arriva fino ad un termine di durata della cosmogonia indiana, "antarakalpa", che sfida la matematica.
Il contrappasso avviene in base al "peccato", a partire dall'uccidere (anche animali) e poi rubare, fornicare, bere, mentire e non credere. I demoni (oni) si occupano di torturare i dannati, e negli inferni più caldi (o freddi) le anime si possono sentire urlare da oltre decine di migliaia di chilometri, ed iniziano a patire le sofferenze addirittura alcuni giorni prima di morire (!).
Nel cerchio più profondo, l'ottavo, l'inferno della sofferenza ininterrotta, riservato agli assassini dei propri genitori e chi ha violato tutti gli altri precetti, è così orribile da non poter essere descritto e così profondo da essere raggiunto solo dopo oltre 2000 anni di caduta. La pena dura un intero antarakalpa e si dice che la sofferenza prosegua anche durante le vite successive.
Ed ecco come si raggiunge il jogoku.
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