Susan J. Napier è un'insegnante di giapponese cui ad un certo punto uno studente mostra per la prima volta un manga. Siamo sul finire degli '80 e nei cinema sbarca quell'incredibile manifesto fatto di neon, bande giovanili e detonazioni che è Akira (K. Otomo). La prof. decide di non perdere altro tempo e che è ora di andare più a fondo in questo strano, esotico mondo dell'animazione giapponese.
Nel solo primo capitolo l'autrice evidenzia come la stagnante situazione in termini di trame abbia ridotto Hollywood poco più di una fabbrica di stampini colorati (e meno male che c'è il Sundance). La regia di quasi tutta l'animazione made in USA sembra appiattita sullo stile cartoon e presenta quasi sempre lo stesso tipo di inquadratura. Un certo timore nei confronti di varie associazioni di benpensanti ha levato di torno intere tematiche degne di nota (uno per tutti l'identità liquida di genere).
Il Giappone produce da solo il 60% dell'animazione del mondo e, com'è ovvio, il target interessa tutte le fasce demografiche, non solo i bambini. Stagione dopo stagione, anno dopo anno questa sottocultura comincia a diventare mainstream, nonostante un background culturale atipico, clamorose difficoltà linguistiche - colmate da eroici destributori e, perchè no, anche gruppi di fansubber - e un insolente controcanto alla migliore tradizione (quella dove ogni 2 per 3 parte a cantare un uccellino, una marmotta, un peluche qualsiasi per intenderci).
Anime: from Akira to Princess Mononoke è un libro che è il vangelo di quelli che debbono porgere l'altra guancia dopo essersi sorbiti l'ennesimo: "ma ancora co'sti cartoni animati ?".
Anime: from Akira to Princess Mononoke experiencing contemporary japanese animation
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